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ARCHITECTURAL DIGEST – ITALY

December 2017

  • Tropical Chic

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    Il circolo privato che fu l’epicentro della vita mondana di MIAMI rinasce e diventa un hotel. Con un progetto che mette in dialogo passato e presente.

    Notte di San Silvestro del 1930, Miami. Nel sobborgo di Surfside, affacciato a est sull’oceano e a ovest sulla Biscayne Bay, c’è un tra co di limousine mai visto. È l’inaugurazione del The Surf Club, il circolo privato super esclusivo voluto dal milionario Harvey Firestone (quello degli omonimi pneumatici). A quella festa memorabile ne seguono infinite altre, The Surf Club diventa il posto dove per decenni vanno tutti: Liz Taylor, lo Scià di Persia, i duchi di Windsor, Tennessee Williams. La sua architettura si ispira alle ville francesi sul Mediterraneo, con archi, porticati, soffitti con travi a vista. Il comfort è leggendario: sulla spiaggia ci sono piccoli capanni, in realtà delle casette in miniatura, dove gli ospiti del circolo possono cambiarsi, riposare, stare in tranquillità. Winston Churchill ne ha a disposizione addirittura due, una per dormire e una per dipingere. Poi arrivano i jet, le vacanze ai tropici diventano una cosa non più solo per ricchi, e The Surf Club inizia a perdere smalto, soci e denaro. Un declino che porta, nel 2012, alla sua chiusura e vendita. Ma con una promessa da parte dell’acquirente, un gruppo finanziario, di riportarlo a nuova vita.

    Per farlo è stato chiamato il grande architetto Richard Meier, che ha progettato i tre nuovi edifici in vetro e acciaio che oggi sorgono alle spalle di quello storico, e una giovane star del- la progettazione di interni, il francese Joseph Dirand, che ha arredato tutti gli spazi aggiornando in chiave contemporanea l’eleganza della Jazz Age. Un compito che sull’edificio storico è stato più di cile del previsto: la struttura originaria infatti era stata oggetto, nel corso degli anni, di una lunga serie di ritocchi e aggiustamenti che avevano finito per alterare lo stile dell’edificio. «Il fatto che il circolo fosse molto famoso è stato una fortuna», spiega Dirand. «Alle feste ed eventi che organizzava venivano scattate molte fotografie, un archivio iconografico importante che ci ha permesso di vedere com’era, con ricchezza di dettagli. Per fortuna, perché quando sono entrato nell’edificio per la prima volta tutto era in condizioni molto compromesse. Abbiamo dovuto praticamente demolire per poi ricreare. Una sfida importante è stata far dialogare la parte storica con le architetture di Meier». La chiave estetica che Dirand ha adottato è lo stile degli anni d’oro di Miami (dai ’30 ai ’40) riletto alla luce del gusto contemporaneo. «Sono state due scale di intervento diverse», prosegue l’architetto. «La parte storica era ricca di dettagli, glamorous e sexy, mentre quella contemporanea (quella delle camere e degli appartamenti, ndr) ha un’impronta molto più minimalista». Dirand ha scelto di mantenere queste differenze: l’edificio originale è stato restaurato in un’ottica di rispetto storico, cambiando i serramenti troppo moderni, ricostruendo i soffitti a travi e i dettagli decorativi andati perduti. Per la parte moderna, invece, l’idea è stata di far entrare la luce e i colori del paesaggio una palette di bianco, beige e azzurro, e di mantenere il contatto con la storia attraverso dettagli come i decori a rilievo su pareti e soffitti, come negli anni ’30. I mobili (quasi tutti realizzati su disegno da un partner italiano d’eccezione, Molteni&C) hanno linee semplici ed eleganti, anche loro con un’indefinibile aria rétro che regala calore agli ambienti. Per le camere, poi, Dirand ha progettato anche una speciale seduta da mettere davanti alle pareti in vetro, che può essere usata come un divano angolare (con un piccolo tavolo che la trasforma in angolo pranzo), un daybed o uno scrittoio: «Questo mi ha permesso di eliminare buona parte dei mobili che vengono messi in una stanza d’albergo. E lo spazio è diventato ancora più architettonico.